Intorno e dentro la piana di Castelluccio

Una giornata intera per prendere confidenza con l'unicità della piana di Castelluccio.
Una lunga passeggiata molto panoramica e intima, e alla fine anche con un discreto dislivello da superare. Da Forca di Presta percorrendo la larga dorsale Sud che aggira la piana, si siamo mantenuti in quota fino al diruto rifugio le Cese, da lì siamo scesi all'interno della piana in uno dei suoi angoli più remoti e nascosti, toccato il laghetto ci siamo goduti un momento da far west con mandrie di cavalli al galoppo; attraversando boschi che iniziavano ad infiammarsi siamo risaliti in cresta con una lunga ma agevole salita per chiudere l'anello. Silenzio, grandi spazi e nessuno in giro, quello che ci piace di questo sito davvero unico.


Escursione dettata e voluta dal cuore, da tempo pensata per conoscere meglio ciò che sono abituato ad avere davanti o intorno decine di volte l’anno ma che finisce sempre per risultare uno sfondo di qualche salita o un territorio da attraversare per svalicare verso altre mete; parlo della piana di Castelluccio, una unicità ambientale che credo meriti qualche escursione dedicata. La porta del vento, Forca di Presta è il nostro punto di partenza, il solito direte, ma stavolta puntiamo ad Ovest; poco prima di arrivare all’ormai diruto rifugio degli Alpini, sulla destra e all’altezza di una palina, si stacca una piccola traccia che usiamo per raggiungere la vicina dorsale da dove è già possibile affacciarsi sulla sonnacchiosa piana di Castelluccio, è ancora sommersa da un denso strato di fitta nebbia. Seguiremo la linea di cresta, ampi e tondi pratoni che salgono e scendono senza lasciare nulla al dubbio sul passo successivo, il percorso da fare è già tutto là davanti, o quasi, poco sotto sulla sinistra scorre l’ampia traccia del GAS con il bel sentiero costruito per i disabili e che forse in troppo pochi conoscono; il cielo si mantiene basso e grigio e annulla le profondità, a Sud le cime della Laga non riescono a svettare e la poca neve dei giorni precedenti si confonde col cielo, dalla parte opposta i colori delle faggete che salgono dalla piana sono spenti e Castelluccio non esce ancora dalla sua coperta ottobrina; ad Ovest l’orizzonte si chiude sulle basse montagne vicine, intuiamo solo la sagoma del Pozzoni. I dislivelli sono pochi e minimi, qualche selletta e qualche risalita, la prima cimetta, monte Pellicciara, la tocchiamo subito (+40 min.) e già si annuncia quella più alta di tutto l’anello di oggi, monte Macchialta che presenta l’unica salita di questa dorsale un minimo degna di questo nome; un grosso omino in vetta (+30 min.), un palo nel mezzo tanto a suggellare una sorta di primato e quando ci siamo sopra finalmente la piana si è anche liberata della sua coperta; solo il Vettore e tutta la cresta fino al Bove, ma è una costante cui siamo abituati, rimangono con le cime ben coperte, quota nuvole intorno ai 2000m . La quota un poco più elevata e le montagne più basse davanti disegnano con chiarezza il percorso da compiere, dal Macchialta si scende per prati ripidi e senza sentiero fino alla sella sottostante dove si stacca una netta traccia che traversa a destra esattamente dove termina il vallone dell’Inferno, un ampio imbuto boschivo dove l’unica cosa che ricorda il toponimo sono i colori dei faggi che si vanno accendendo. La mancanza di sole non favorisce e spegne molto le tonalità delle chiome dei faggi ma il colpo d’occhio è notevole, una coperta che vira dal giallo al rosso ruggine e che confluisce su un ramo secondario della piana, sul lato opposto l’enorme versante del Redentore incappucciato dalle nuvole a contenere uno scrigno di imparagonabile bellezza. Il sentiero si abbassa un po', si raccorda con una ampia traccia che proviene lo stesso da Forca di Presta e che traversa tutto il versante alto sopra la piana; entriamo nel bosco per un breve tratto e quando ne usciamo ci siamo avvicinati tantissimo al comprensorio di Forca Canapine, il rifugio le Cese è ormai quasi a vista tanto che rinunciamo alla deviazione senza sentiero sulla dorsale che scende fino al laghetto della piana, nostro primo obiettivo, per raggiungerlo; piloni degli impianti da sci (del tutto inutili ormai e ancora più dirompenti e fuori posto nei loro freddi profili) spiccano sopra le alture che abbiamo di fronte, fanno parte di un passato che chissà mai se ritornerà a rivivere. Qualche segnale sulle pietre che emergono dai pratoni, oggi non servono proprio, facilmente confluiamo sulla larga traccia del GAS che ci porta al diroccato rifugio le Cese (+1.30 ore.). Dove ti giri da queste parti il terremoto del 2016 ha fatto scempio, non ne è fuori questo rifugio, è in piedi ma ha “cicatrici” così evidenti che si evita anche di avvicinarcisi. Nelle immediate vicinanze tre casette in legno assicurano delle stanze per pernottare, in qualche maniera la voglia di vita e di lavorare vince sempre sulla devastazione. Raggiunto il rifugio la strada si biforca, prendiamo a destra, scorriamo davanti alle casette in legno e prendendo in discesa dopo un curvone entriamo nella faggeta che su questo lato della piana assume tonalità più forti e colori diversi. Una serie di tornanti fanno perdere quota, molti “tunnel” dai colori intensi anche se purtroppo spenti ci regalano il primo “foliage” ella stagione, siamo totalmente soli e il silenzio è assordante. Quando usciamo dal bosco siamo poco sopra una piccola porzione della piana di Casteluccio, quella più isolata, più remota e meno frequentata, la strada scendendo con regolarità atterra proprio in corrispondenza del laghetto (+50 min.). Costa Faeto e monte Guaidone chiudono questo spicchio di piana sull’altro versante, quello del Redentore ci viene chiuso dalla dorsale che abbiamo di lato, tutto ha il colore dell’erba arsa e bruciata, solo i boschi che chiudono ad Ovest contrastano e creano movimento, una mandria di cavalli al galoppo taglia la piana, non fosse per il mandriano che li conduce a bordo di una jepp verrebbe da pensare di stare nel bel mezzo di un viaggio nel tempo dove da un momento e l’altro ti aspetti che spuntino i pellerossa a cavallo inseguiti dall’esercito americano. Davvero sembra un fermo immagine di un tempo che non c’è più, me lo sentivo, lo sapevo che ci si doveva arrivare in questi angoli remoti della piana. Rimaniamo a lungo in piedi al bordo del laghetto, a dire il vero poco più di un acquitrino, un canneto, ma certamente una peculiarità all’interno di questo posto unico, il silenzio era devastante, rumoroso, un leggero sibilo del vento e lontanissimi nitriti erano l’unica colonna sonora di questo momento onirico e intimo e c’è voluta molta volontà per decidere di lasciarlo. Rinunciamo a raggiungere il fosso Mergani, l’inghiottitoio della piana di Castelluccio, e a salire il monte Guaidone, l’occhio e il cuore corrono più delle gambe hanno visto troppo in grande; riprendendo la via del rientro ci inventiamo su due piedi dove provare a passare, non volevamo attraversare interamente la piana. Subito dopo il laghetto ci teniamo sulla destra ai margini del bosco, saliamo di quota rispetto alla piana e superiamo diversi fossi e qualche lingua della piana che si inoltra verso la faggeta; pensavo ci fossero delle tracce per salire, mi sembrava anche di intuirle ma quando mi ci dirigevo svanivano come le raggiungevo, quando consultando la carta ci siamo resi conto che l’unica vera traccia traversava molto alta, quasi sotto il profilo di cresta, abbiamo rinunciato a cercarla. Marina non ama improvvisare e di più trovarsi fuori sentiero, ma ormai c’eravamo alzati troppo e conveniva continuare, traversiamo sotto la valle dell’inferno, prima eravamo sopra, due punti di vista e non saprei quale dei due sia il più bello, di certo una suggestiva fiammata di colore in questa grigia giornata. Cerco di individuare la linea di salita meno ripida e quella che implica attraversare il tratto di faggeta più breve, la individuo un po' avanti, in una lingua della radura che pare infilarcisi dentro, pare quasi l’imbocco di una traccia da lontano. Quando ci arrivo una manciata di minuti dopo l’imbocco c’è davvero, e anche una traccia di calpestio sembra esserci, non è un sentiero, forse è solo il risultato della logica di chi va in montagna, ragioniamo tutti alla stessa maniera. Entriamo nella faggeta, bella, silenziosa e colorata, seguiamo piccole dorsali che ci permettono di non perdere mai quota e in venti minuti siamo di nuovo fuori, la linea di cresta è cento metri più in alto, una profonda lingua di radura ci aiuta a scegliere le traiettorie e raggiungere il sentiero che traversa poco sotto. Lo prendiamo verso sinistra, lambisce di nuovo la faggeta sotto cima Pellicciara e continua a traversare fin quasi a toccare la sella che lo sovrasta; abbandoniamo di nuovo il sentiero e traversando la dorsale in dieci minuti siamo sulla traccia del GAS, altri quindici al rifugio degli Alpini (+2 ore) e quindi alla macchina. E’ stata una intima, leggera, interessante e proficua cavalcata sulle montagne di casa, ho dato con questa escursione risposte a tante mie domande, ora il territorio è ancora più “mio” e questa cosa mi sta piacendo da matti; non da ultimo ho posto le basi per un’altra escursione, non sarà una cosa da fare subito ma l’inghiottitio, il monte Guaidone, insomma altri dettagli della piana di Castelluccio li aggiungerò al mio carniere raggiungendoli con base di partenza il passo sopra il rifugio Perugia, magari, ma forse sarà troppo, raggiungendo per chiudere l’anello, monte Ventolosa, il cui toponimo sa già di un bel programma.